La prima volta che ho sentito parlare di “anno all’estero” frequentavo la seconda classe del Liceo. Ricordo quel giorno di marzo come fosse ieri: ero in classe, quando durante la lezione sono entrate due rappresentanti di un’agenzia di viaggi studio e hanno iniziato a parlarci di cosa fossero realmente queste esperienze. Da quel momento l’argomento ha iniziato ad interessarmi molto e così ho portato a casa con me un depliant che ci avevano lasciato per eventuali informazioni. Dopo averlo letto da capo a fondo mi sono appassionata e ho iniziato a parlarne con i miei genitori, sapendo però fin da subito che non mi avrebbero dato speranze, in quanto mi hanno sempre trattata come fossi ancora una bambina e sarebbe stato impensabile per loro farmi fare un’esperienza simile. Per mesi, ogni giorno ho cercato di far capire loro quanto importante questa esperienza potesse essere per me e per la mia crescita culturale e mentale, ma all’inizio sembrava non esserci verso di convincerli. È andata avanti così fino a ottobre, quando aspettavo impaziente la pubblicazione del bando INPS per le borse di studio dedicate alle vacanze studio all’estero: ho convinto mio padre a fare la domanda, nonostante mi avesse avvisata che non mi avrebbe garantito nulla, in quanto il costo di tali programmi è elevato, pur usufruendo di borsa di studio parziale. Verso gennaio siamo venuti a conoscenza del fatto che il Rotary Club di Pachino si occupava anche di queste vacanze studio ad un prezzo molto conveniente, ma il loro programma per noi non era fattibile per vari motivi. Era dunque deciso che non sarei partita. Segno del destino, la stessa sera INPS ha pubblicato i risultati delle domande e ho scoperto di essere vincitrice di una borsa di studio per programma annuale in paesi extra-europei, esattamente ciò a cui miravo. Ma ancora i miei genitori si dimostravano contrari, quindi sono scoppiata in un pianto sia di gioia perché non mi aspettavo di vincere, e mi rendevo conto che l’impegno ripaga davvero, sia di dispiacere perché avrei sprecato questa opportunità.
Nel frattempo i miei genitori, rendendosi conto di quanto fosse per me importante e quanto ci tenessi, hanno cominciato a informarsi, partendo completamente dal nulla, dato che non siamo abituati a queste esperienze e nessuno di noi sapeva come funzionasse. Chiedendo ad alcuni colleghi di papà abbiamo finalmente trovato un’agenzia affidabile: Astudy. Così ho iniziato i colloqui e, fatti i test di Inglese necessari, ho preparato l’application con destinazione Stati Uniti. Non mi restava che attendere di ricevere l’assegnazione di una famiglia e una scuola.
Mio padre nel frattempo è dovuto partire per lavoro, per più di sei mesi, dunque ero rimasta sola, con mia madre che, pur non capendone molto, cercava di aiutarmi a compilare quella montagna di documenti necessari. Poi è arrivato il Covid, che ha portato tre lunghi mesi di agonia e attesa snervante: tutto bloccato, INPS aveva sospeso il bando, ero quasi sicura che non sarei mai riuscita a partire. Astudy tuttavia non ci aveva tolto le speranze. È stata l’attesa più brutta della mia vita, durata fino a fine agosto. In tempi normali avrei dovuto ricevere l’assegnazione della famiglia ospitante a luglio e partire ad agosto, ma era il 31 agosto e ancora non sapevo nulla, nonostante fossi andata all’ambasciata americana a Napoli a fare il visto, che avevo già sul passaporto. Mi ero quasi arresa. Ma il primo settembre qualcosa si è smosso, mi è arrivata una chiamata dalla mia agenzia, la quale mi informava che non c’erano più famiglie disponibili per via della pandemia, quindi mi ha posto davanti a una scelta fra tre opzioni: rimandare la partenza a gennaio e fare solo un semestre, continuare con i 10 mesi e farli in una boarding school, dunque vivere lì, in dormitori, senza famiglia ospitante, o rinunciare a tutto. Ho chiamato mio padre, che era ancora all’estero per lavoro e non ne poteva più di occuparsi di tutto questo a distanza; parlando con lui, continuava a dirmi che avrebbe preferito che rinunciassi, che era pericoloso, ma io, determinata e caparbia come sono, avevo da subito scartato quell’ opzione. I miei genitori, ormai arresisi, mi hanno lasciato libera scelta, nonostante la paura enorme che avessero, perché non volevano rovinare questo mio sogno: abbiamo dunque valutato e scelto l’opzione boarding. Ho dovuto cambiare totalmente programma e rifare daccapo l’application, e in tutto ciò la mia agenzia non mi ha mai abbandonata. Ho scelto la scuola che avrei voluto frequentare fra tre proposte, così abbiamo fissato un colloquio e sono stata accettata. Una boarding school privata nel Maine, tra le top 10 migliori degli Stati Uniti in istruzione, del valore di 40.000$ all’anno (che la mia agenzia avrebbe pagato per me), che mi avrebbe dato anche un valido diploma a fine anno e di conseguenza la possibilità di fare l’università in America. Era un affare, e quando mi è stato proposto, credevo fosse un miracolo. Così, una volta pronti i nuovi documenti, sono dovuta andare a Roma per rifare il visto, dato che era un altro tipo di programma. Nel frattempo mio padre è tornato, in modo da riuscire a salutarmi, e ho saputo la data di partenza solo cinque giorni prima della stessa. Sono partita, nonostante tutti gli ostacoli incontrati, con un programma che non era quello che avrei dovuto fare, nel bel mezzo di una pandemia, con tante persone contro che rimproveravano ai miei genitori di avermi lasciato andare, con gli inevitabili sensi di colpa.
Il 4 ottobre 2020 è iniziata quella che si rivelerà l’esperienza più bella della mia vita. In questa scuola ho conosciuto persone nuove, provenienti da tutto il mondo, con cui convivo 24 ore su 24. Ho imparato il vero significato di condivisione, l’importanza e la bellezza della diversità tra le culture. Vivendo in un dormitorio, a contatto con altre 40 persone, si impara a gestirsi da soli e a essere indipendenti. E nonostante all’inizio fossi giù per non essere ospite di una famiglia, poi ho capito che non ce n’è bisogno e sto godendo la mia esperienza appieno.
Qui sto sempre con i miei amici e mi diverto tanto, la situazione coronavirus è ottimale ora, siamo “zona verde”. Inizialmente non andava molto bene, e per questo hanno smesso di organizzare gite o uscite fuori città, e c’è stato un periodo di noia, in cui eravamo tutti giù di morale e, non lo nascondo, ho avuto i miei momenti di debolezza in cui pensavo di tornare a casa, ma poi mi sono resa conto di come stavano vivendo i miei compagni in Italia, senza uscire, passando giornate intere a studiare davanti a un computer, pieni di verifiche e interrogazioni, e li vedevo così disperati che mi dispiaceva per loro, perché qui io non mi posso affatto lamentare, e adesso vorrei poter non tornare più.
Nonostante siamo stati privati di tante cose tipiche come l’homecoming e tanti sport, sono contenta di essere qui adesso e mi ritengo fortunata. Mentre il tempo vola troppo in fretta, le amicizie instaurate si saldano sempre di più, e credo proprio che questi legami siano i più belli, perché nonostante la distanza si riescono a mantenere a volte una vita intera. Ora posso dire di avere degli amici sparsi un po’ per tutto il mondo, e quando tornerò a casa sarò sicuramente un’altra persona, cambiata, sicuramente in meglio, con la mente più aperta e in grado di gestirmi da sola, e, ovviamente, con un bagaglio culturale più ampio. E i miei genitori, che continuano a ripetermi quanto sono fieri di me, non si pentiranno mai di avermi dato questa bellissima opportunità, cosa per cui sarò loro grata a vita.
Federica Blandizzi – IV C Liceo Classico